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LA STORIA
Milioni di anni fa il Kenya fu trasformato nella sua forma geologica da una serie di terrificanti eruzioni e di movimenti di terra. Nessuno, ancora oggi, ne conosce i motivi. Certo è che le modificazioni continuarono per migliaia d’anni. Da Nord a Sud si crearono monti e vallate, ad Ovest una grande depressione in cui sgorgò il Lago Victoria. Un panorama quasi lunare. Quando apparve quella che oggi è conosciuta come la Grande Rift Valley, l’Arabia era separata dall’Africa. Cominciò allora un’ingente migrazione di specie animali, così come fu più tardi per gli uomini. La vera trasmigrazione panafricana si sviluppò circa 4000 anni fa. Da quel momento, in varie fasi successive, molti popoli decisero che quella terra era diventata, quanto a clima e ad assetto geografico, un ottimo posto per se stessi e per le loro mandrie. I primi furono i pastori Cusciti che vennero dal Nord. Intorno al 1500 a.c. dalla valle del Nilo arrivarono gli antenati della popolazione Kalenijn. Un altro gruppo di sud-niloti occupò l’area del lago Turkana, da loro discesero poi i Masai. I progenitori degli attuali Luo, invece, giunsero dal lago Vittoria per poi passare nell’Uganda occidentale. Allo stesso tempo gli animali selvatici trovarono il loro habitat ideale: spazio, cibo e tranquillità.
La ricerca storica condotta dai “cacciatori di fossili” rivendica al Kenya degli importanti primati paleontologici. Nel 1926 il dottor Louis Leakey (inglese ma keniota di nascita) inizia la sua ricerca proprio nell’Africa Orientale. Grazie anche al contributo della moglie Mary Douglas Nicol, riesce a reperire, nelle sue spedizioni in Tanzania ed in Kenya, tracce di quella storia perduta: manufatti in pietra, fossili animali, ominidi che rappresentavano un’evoluzione di 25 milioni d’anni. La sua scoperta più significativa avviene, tra il 1950 ed il 1960, in Tanzania. Il 17 luglio 1959 trova 400 frammenti dello scheletro di Zinjanthropus Boisei, denominato Zinj, noto poi come il “Nutcracker Man” (il masticatore di noci). Qualche anno più tardi i coniugi Leakey trovano parte dello scheletro di colui che “battezzano” come l’”Homo habilis”. Contemporaneo di “Zinj”, l’Homo habilis presenta un cranio più grande e a lui si attribuisce la capacità di lavorare la pietra con le mani. Viene stimato che risalisse a 10.000 – 12.000 anni prima. I Leakey sostengono che ”Handy-man” fosse il vero progenitore dell’uomo moderno. La loro teoria è aspramente combattuta da altri paleontologi e tocca proprio a Richard Leakey, il figlio dei due ricercatori, supportare la tesi dei genitori. In quella che viene definita come la più importante “caccia” nella storia dell’archeologia, reperisce intorno al Lago Turkana strati fossili che avevano preservato resti umani ed animali vecchi di quattro milioni d’anni.
Nella storia tutti i popoli si sono sempre spostati dalle zone fredde verso quelle con un clima più mite, dalle terre montuose al mare. Così, nei secoli, accade anche in questa terra. Le immigrazioni si susseguono ad un ritmo storicamente serrato. La prima è (secondo millennio prima di Cristo) dall’Etiopia, quando dei nomadi, “molto alti, che parlavano la lingua cuscita”, si spostano verso il Kenya. Parlano una loro lingua e cominciano ad allevare buoi, capre e pecore. A loro si attribuiscono anche i primi sistemi d’irrigazione. I mutamenti climatici seguenti, costringono poi, questo popolo a trovar riparo sulle montagne sovrastanti il Lago Victoria. Circa tremila anni fa, a loro subentra un altro gruppo etnico, gli Yaaku che occupano la parte centrale del Paese. Insomma nel millennio dal 500 a.c. al 500 d.c. da tutto il continente si concentrano coloro che poi saranno gli antenati degli attuali abitanti del Kenya.
DALLE PRIME NOTIZIE STORICHE ALL’INFLUENZA INGLESE
Difficile stabilire quali fossero state le reali attività e la cultura di tutti quei popoli. La mancanza di testimonianze scritte non permettono di trovare conferma delle molte leggende. Le prime notizie certe a proposito di questa terra si trovano nelle opere del geografo greco Tolomeo che risiedeva in Egitto. Nella suo trattato Il periplo del mare Eritreo (secondo o terzo secolo a.c.) racconta dell’Azania (chiama così la costa keniota) e della sua gente: “…una bottiglia di vino, aiuterà a conquistare il cuore dei barbari ed un po’ di grano vi farà dare il benvenuto…”
Nel decimo secolo, anche il maggior geografo arabo, Al-Mas’udi’s, autore di un’enciclopedia di 30 volumi, si occupa del Kenya. “La terra di Zinj” che, per l’autore, è uno strano Paese: “…molte persone sono di colore nero, qualcuno Having hanging lips, altri sharpen their teeth with files e si mangiano l’un l’altro”. Ma ciò che colpisce il geografo arabo è che la gran parte degli animali è selvaggia. “Questa gente non usa – continua Al-Mas’udi’s – gli elefanti per fare la guerra o altro, li cacciano e li uccidono…”.
Dal 14° secolo emerge una comunità sulle altre: gli Shwahili. Il nome deriva dall’arabo, è il plurale di Sahel che significa costa. Arabi e Persiani sviluppano il commercio proprio lungo la costa. Alcune carovane spostano il loro bestiame verso i primi insediamenti urbani, dove si sviluppa l’architettura. Nascono belle residenze, importanti monumenti e raffinate moschee. Nasce la città di Gedi (o Gede), i cui ruderi sono visibili ancora oggi. Nel sud della costa sorge Mombasa che, grazie al vantaggio di essere un’isola, diventa il principale porto per il commercio dell’oro e dell’avorio. Mombasa era, altresì, una chiave nevralgica nella politica espansionistica dei Musulmani all’interno dell’Oceano Indiano. Nel 1497 il Portogallo, nell’intento di far concorrenza ai commerci di Venezia, progetta di creare un’alternativa al viaggio via terra e di scoprire una via marittima verso l’India. Vasco Da Gama salpa, doppia capo Horn e risale la costa africana, giungendo a Mombasa. Non entra in porto. Con prudenza, cerca di raccogliere delle informazioni. Fa dei prigionieri, li interroga e si rende conto che è atteso da un’imboscata: evita l’approdo e se ne va. L’esploratore portoghese continua il suo viaggio e giunge a Malindi dove viene invece amichevolmente ricevuto dal sultano locale. Vasco Da Gama ottiene cibo, acqua e una guida per proseguire la propria avventura. Tra Malindi ed il Portogallo nascerà, così, un ottimo rapporto che durerà nel tempo. E’ proprio di allora il proverbio: “Damas de Malindi, Cabailleros de Mombasa”. Uno slogan che la dice lunga sulle impressioni che devono aver ricavato quegli esploratori dal primo contatto con la costa. A seguito dei rapporti di Da Gama, il Portogallo decide piuttosto di punire Mombasa. Qualche anno dopo, nel 1593, la città cade sotto il dominio lusitano e nel 1598, allo scopo di garantire all’isola una difesa efficace, i portoghesi costruiscono la fortezza di Fort Jesus. Una cittadella arroccata in alto che ha lo scopo di proteggere il porto dalle scorribande arabe. Nel corso dei secoli Mombasa è sempre stata teatro di scontri sanguinosi, tanto da meritarsi l’appellativo d’Isola della guerra (Mvita),. Avere il controllo di Mombasa, del resto, voleva dire garantirsi il controllo del commerci. Gli Omaniti riescono a riprendersi Mombasa definitivamente solo nel 1698, sconfiggendo i portoghesi che nel 1729 si ritireranno in Mozambico.
Nel 19° secolo Mombasa è governata dalla famiglia araba Al Mazruis. Nel 1824 il capofamiglia Solimano Bin Alì, per fronteggiare le mire espansionistiche del sultano di Oman Seyyd Said, rappresentante una dinastia rivale, intuisce che l’unica soluzione è di dotarsi di uno scudo di protezione. Così s’inventa una soluzione a dir poco geniale. Nel porto c’è una nave inglese. Si tratta di una spedizione di studio. Ma Sayd si rivolge lo stesso al capitano Owen, comandane della nave Leven e gli chiede la protezione inglese. Il capitano Owen, non senza un po’ di stupore immaginiamo, avvia una serie di trattative durante le quali pretende ed ottiene che sia abolita la schiavitù ed alla fine accetta di proclamare Mombasa “protettorato inglese”. Owen, molto pomposamente, nomina il suo vice, il tenente John Reitz, proconsole e lo lascia sull’isola in compagnia di un interprete e otto marinai… Fiducioso che il suo “trattato” sarà ratificato dalla Corona, Owen riprende il viaggio. Così con quell’accordo molto casuale, con un pugno d’uomini ma soprattutto grazie all’intuito di quell’ufficiale ed ai timori del sultano Sayd, l’Inghilterra si affaccia per la prima volta in Africa Orientale. Ed anche se dopo tre anni quell’accordo improvvisato sarà disconosciuto dal governo, da lì a poco tempo l’Inghilterra vittoriana comprenderà l’importanza di una propria presenza in quella zona del mondo. Gli inglesi svilupperanno una vasta opera politica, economica e di costume, lasciando segni che ancora oggi, specie viaggiando in Kenya, si colgono in ognidove.
L’ORGOGLIO VITTORIANO E LE ESPLORAZIONI
Già nella seconda metà dell’ottocento la questione dell’Africa Orientale comincia ad appassionare il mondo britannico. Dalla campagna antischiavista, al desiderio di diffondere la religione cristiana, alla possibilità di civilizzare un nuovo continente, alle curiosità più meramente scientifiche, gli inglesi si rivolgono verso questa parte d’Africa sempre con più attenzione. Il momento decisivo è l’apertura del canale di Suez (1869). Quella grande opera rivoluzionaria permette di ridurre le distanze verso la cosa orientale dell’Africa, quindi verso le Indie e la Cina. La Vecchia Europa non può lasciarsi sfuggire questa occasione. La Germania di Bismarck e l’Inghilterra della regina Vittoria decidono di spartirsi il controllo della regione. Nel 1885 con il trattato di Berlino si definiscono le zone d’influenza: ai tedeschi tocca il Tanganika (l’attuale Tanzania) agli inglesi Kenya ed Uganda.
Naturalmente “business is business” ma insieme allo sviluppo economico ci sono anche altri fattori che spingono il mondo europeo all’intervento in Africa: senso dell’avventura e curiosità culturali come il mistero della cima perennemente innevata del Kilimanjaro. Secondo la leggenda, l’unico ad avere scalato fino ad allora il Kilimanjaro era stato il re Menelik I, figlio del re Salomone e della regina di Saba, che nel X secolo a.c. dopo una lunga serie di battaglie si accampò a 4500 metri sulle cime del Kibo e del Mawenzi. Vecchio e stanco disse ai suoi che avrebbe raggiunto il cratere e lassù si sarebbe lasciato morire. Proprio come in tutt’altra parte del mondo usavano fare i grandi capi pellerossa.
A quel tempo la Royal Geographical Society è la sede naturale di accesissimi dibattiti sulle nuove possibili scoperte. E sono molti gli esploratori che profondono sostanze ed energie, talvolta mettendo a repentaglio anche la vita, per poter raggiungere il “sogno della gloria”. Nel 1880 la Royal Geographical Society incarica lo scozzese Joseph Thomson di esplorare la regione. Ignorando il consiglio di Henry Morton Stanley, secondo cui era necessario un gruppo di almeno mille uomini ben armati per non rischiare il fallimento e lo sterminio, nel 1883 Thomson si appresta al viaggio con una spedizione di 143 uomini e solo una dozzina di fucili. La sua è un’impresa epica. Attraversa tutto il territorio che oggi è conosciuto come Kenya, ad eccezione delle grandi aeree desertiche del Nord. Tenendosi a debita distanza dai guerrieri Masai che lo inseguono, passa dai piedi del Kilimanjaro (5986 metri) al Lago Naivasha, continua lungo la Rift Valley, costeggia il Monte Kenya (5199 metri) da lì ancora avanti verso il Lago Baringo, supera il Monte Elgon (4322 metri) per approdare poi sul Lago Victoria per quindi tornare verso la costa. Un’impresa titanica che gli conferisce fama ed onore. Anche se i primi a scalare la grande e misteriosa montagna sarebbero stati, qualche anno dopo, i tedeschi Hans Meyer e Ludwig Purtscheller (5 ottobre 1889) la testimonianza di Thomson è d’assoluto rilievo. Attraverso i suoi racconti, il mondo occidentale finalmente riesce a fare un po’ di luce su quelle terre lontane dove vivono personaggi diversi, misteriosi, diffidenti, caratterizzati da profonde rivalità tribali, protagonisti di guerre sanguinarie ma dotati di coraggio e d’orgoglio. Allo stesso tempo ci sono animali feroci, molti dei quali sconosciuti. All’esploratore britannico viene riconosciuto il merito di aver scoperto una gazzella particolare che ancora oggi è appunto classificata come la gazzella di Thomson. Tutto ciò non poteva non eccitare la fantasia di tutti, dagli scrittori e ai commercianti.
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